La saga del menswear per il prossimo a/i 2017 si è chiusa con le sfilate parigine che, come prevedibile, si sono assestate sullo stesso dialogo intorno alla normalità rivoluzionaria. La normalità intesa come quotidianità, come esperienza comune – e quindi comprensibile a tutti – che è vero e ultimo motore sociale, portatore di innovazione e rivoluzione; per questo il discorso si fa politica e cultura (o controcultura).
Vera ossessione della settimana di moda maschile è stata la collaborazione Supreme x Louis Vuitton. Il gigante del lusso e il marchio di streetwear che è suo diretto corrispondente, nato come emblema della cultura skater e asceso a rappresentazione di quanto indipendenza, snobismo e distanza dall’establishment possano essere fonte di successo, economico e non solo. Nelle parole del designer, Kim Jones, nessuna discussione intorno al menswear a New York può dirsi completa senza menzionare Supreme; la fascinazione che nell’immaginario del designer hanno suscitato, lungo tutta la sua carriera, la città e il marchio esplodono in questa collezione. Che non è solo collaborazione ma anche ricerca di un guardaroba maschile fatto di contemporaneità che pervade i capisaldi del vestire, con attitudine rilassata, spoglio di ogni formalità ma con un attributo di eleganza che risiede piuttosto nella normale unicità che nella stramberia. La collaborazione, (disponibile dal 17 giugno) essenzialmente giocata sugli accessori iconici della maison che si tingono di rosso, si marchiano Supreme, virano il classico disegno al bianco e rosso, ha un valore celebrativo di un’epoca, che si staglia indifferentemente tra gli anni ’70 e gli anni ’90, del luogo-non-luogo per eccellenza, quale è la New York dai mille scenari, e di un marchio. Nessun altra coppia di marchi avrebbe così radicalizzato il dialogo tra due realtà. E se questa collaborazione è una scelta strategica, lo è anche per altre due ragioni: rinnega e scardina le certezze (qualche anno fa fu proprio Louis Vuitton a diffidare Supreme dall’utilizzo improprio della loro fantasia iconica) e porta la controcultura che si è fatta norma, nell’olimpo della cultura (del vestire) che diventa normalità rivoluzionaria.
Jamie Reid, artista del lettering, autore della famosa copertina God Save the Queen dei Sex Pistols al servizio di Pier Paolo Piccioli per la sua prima collezione in solitaria per il menswear Valentino. “Beauty is a birthright reclaim your heritage” è il monito che ricorre sui pullover, sulle giacche, sull’orlo dei cappotti, un invito ad abbracciare la rivoluzione punk seguendo il corso della propria storia, della propria identità. Concretezza che sfugge alla banalità: gli accostamenti di colore sono inusuali eppure ficcanti, le note del verde menta, del rosa pastello, della pelle spalmata nelle tonalità del rosso vermiglio. Ricorrono con insistenza il cappellino da baseball e le sneakers a creare coerenza, ricorsività, soprattutto a stemperare la dialettica di questa collezione. Che non è una citazione letterale all’estetica punk piuttosto una lettura contemporanea di quello che quel movimento rappresentò alla fine degli anni ’70. E il nuovo Valentino ha un po’ lo stesso sapore: non tradisce il passato, lo riconfigura alla luce del presente, è la gentilezza che soppianta una mascolinità ormai defunta, che si tinge di tinte fragili, accostamenti arditi, di volumi rilassati, senza perdere la forza della ribellione, la forza propulsiva di una nuova rivoluzione.
Balenciaga alla sua seconda uscita con il menswear ricolloca il quotidiano nella politica, con esiti che pur guardando alla realtà sociale non sempre sanno conservare quella dimensione idealistica che una rivoluzione dell’ordinario dovrebbe avere. Difficile non ravvedere alcuni riferimenti alla politica recente, dal movimento Occupy Wall Street alle grafiche (colori e font) del democratico Bernie Sanders nella sua campagna per la primarie negli USA. Demna Gvasalia con questa collezione per l’a/i 2017 di Balenciaga pecca forse di eccessivo didascalismo. Eppure, anche qui, la concretezza sembra essere il pilastro su cui si reggono anche gli azzardi più divertenti come il parka antipioggia alla caviglia, la sneaker da boxeur, la felpa brendizzata Kering (il gigante del lusso proprietario di Balenciaga). Proprio in questa scelta di corporate branding risiede forse la lettura di Demna per Balenciaga; nell’accezione latina, la corporazione era un aggregatore sociale oltre che economico, un microcosmo che muoveva lungo lo stesso orizzonte comune. Il nuovo quartier generale di Balenciaga, di recente trasferito negli stessi uffici della società proprietaria al 40 di rue de Sèvres, è quel microcosmo al quale il designer si è ispirato, alter ego delle strade della città. Fioriscono così gli abiti sartoriali dai volumi sbagliati, le divise da dopolavoro al limite dello sportswear, le sovrapposizioni sconclusionate che sono specchio del guardaroba di oggi. Con derisione e al contempo riverenza, un omaggio alla corporazione moderna, spogliata di idealismo ma pur sempre specchio del capitale sociale.
Pushed by Martino Carrera