Quanto deve essere rilevante oggi una Cruise Collection?
Le pre-collezioni – altrimenti note come cruise o resort e pre-fall – sono state considerate con insistenza come collezioni concepite per il mercato, consumer-oriented e rappresentative di una versione condensata, rivista e corretta della main.
Tuttavia di stagione in stagione, queste collezioni sono diventate – quanto meno per i big player del settore, ovvero in fin dei conti per quei marchi che possono sostenerne i costi – un’ennesima occasione per fare mostra di estro creativo e sperimentazione.
Si sono cioè uniformate e al contempo svincolate dalla main. Sono collezioni a sè stanti che vivono di creatività, idea, marketing, comunicazione e vendite proprie. Sono diventate veri e propri show ed happening, tanto più che la celebrazione di un certo esotismo spinge le case di moda a muoversi verso località inusuali, proponendo un’esperienza che parte dalla location per la messinscena.
Dopo Chanel e Prada – che, va detto, è stato antesignano della passerella per la resort – arrivano Dior, Louis Vuitton, Valentino e Gucci con le loro Cruise 2018.
Maria Grazia Chiuri – direttore creative di Dior – vola a Los Angeles esplorando una landa che condivide ben poco con il ‘glitz and glam’ di Hollywood: si tratta dell’Upper Las Virgenes Canyon Open Space Preserve, fra i rilievi montagnosi di Santa Monica. Lo scenario è filmico: tende, mongolfiere e la luce emozionale del tramonto. Lo show interpreta la cultura e l’iconografia dei Nativi Americani, più che per appropriazione indebita, per omaggiare un certo gusto per lo stile ‘americana’ e la femminilità essenziale del West. Ispirata a Georgia O’Keeffe, che fa capolino nei cappelli a falda larga, ai dipinti primitivi stampati sugli abiti e ai tarocchi della shamana femminista Vicki Noble, lavorati a patchwork su lunghe gonne, la collezione conferisce nuovo respiro, quasi una nuova luce alle silhouette del guardaroba Dior. Una luce che ha i colori del tramonto, dell’emozione e della libertà. “Dior Sauvage” è il nome e lo spirito di questo show.
Anche Louis Vuitton intraprende un lungo viaggio, trasferendosi dal Louvre (dove ha sfilato lo scorso Marzo) a Kyoto, negli spazi del Miho Museum, progettato – proprio come la piramide del museo parigino – dall’architetto I.M. Pei. Anche qui ritroviamo un’istanza di appropriazione culturale, in questo caso di quella Giapponese attraverso un viaggio che dagli anni ’70 ci porta al presente. Nicolas Ghesquière racconta di aver visto “un film intitolato ‘Stray Cat Rock,’ che parla di donne motocicliste nella Tokyo degli anni Settanta.” Da questa reference parte la collezione Cruise 2018 di Louis Vuitton: a scendere in passerella sono moderne Kabuki girls dal trucco geometrico, che indossano le stampe di Kansai Yamamoto, il designer mito del Sol Levante e creatore dei costumi per lo Ziggy Stardust Tour di David Bowie. Sono moderne centaure dal cappotto patchwork, indossano l’animalier scomposto e rivisto, portano dei boots texani stravolti come solo l’estro nipponico sa fare. È un sodalizio e un omaggio rispettoso perchè didascalico e omnicomprensivo, capace di non tradire eccessivo citazionismo ma piuttosto di dare un carattere e un volto al guardaroba di Vuitton per la prossima primavera. Fedele all’occidente, guardando a oriente.
Valentino ha scelto una località decisamente meno esotica: New York. La Cruise 2018 fa capolino tra le architetture industriali di un loft al numero 0 di Bond St. La città è lo scenario della sperimentazione, dell’inclusività e in fondo del sogno americano inteso come possibilità di trovare il proprio spazio nel mondo. Così i look dello show nascono pensando all’hip-hop, autentico degli anni ‘70 senza tuttavia cedere alla nostalgia. L’attitudine è Valentino ed è moderna, tanto che riesce ad essere intrigante. La linea di accessori Rockstud Spike è reinterpretata con borchie di plastica, le stampe di Zandra Rhodes fanno di nuovo capolino insieme gli abiti a tunica dal gusto iperdecorativo. Ma su tutto, quel che emerge con guizzo di novità è la reinterpretazione dell’activewear che, di come lo conosciamo, ha ben poco. Ci sono i colori bianco e verde del tennis, le ciabatte da piscina ma a questo si sovrappongono il pizzo, la pelliccia, il ricamo. Una virata carica di significato per Pierpaolo Piccioli. Valentino è (anche) questo. É la possibilità di scegliere il proprio corso, la propria tendenza.
Anche Alessandro Michele – direttore creativo di Gucci – intraprende un viaggio, ma lo è solo in senso temporale. Respinta la richiesta di poter sfilare al Partenone, Gucci sceglie un’altra culla della cultura occidentale: Firenze. Niente di più evocativo. Ci sono le radici della maison, c’è il Rinascimento, c’è la storia (dell’arte) della civiltà moderna, ci sono Palazzo Pitti, il corridoio Vasariano, i Giardini di Boboli, la Galleria Palatina. Sul capo di alcune modelle fanno capolino corone di alloro come gioiello, sugli abiti la cetra di Apollo. Ci sono le divinità e il divismo. Backstage il designer spariglia le certezze confidando di aver voluto raccontare la Napa Valley, Los Angeles e Hollywood. E per quanto le parole impresse su una felpa maschile “GUCCY” o il mantra ricorrente della “Guccification” sembrino evocare una certa anglofilia, il significato continua a rimanere incerto. Michele insiste “Hollywood non è nient’altro che il Partenone dall’altra parte dell’oceano. Hollywood è nata sull’idea della divinità. Volevo trovare una tangente tra la strada, le divinità della vecchia Holywood, l’idea del divismo e l’influenza su tutto della cultura mediterranea.” Tutto chiaro, o quasi. In sostanza Michele ci sta raccontando le infinite possibilità che la sua moda può esplorare, tutte in un unico show, sovrapposte con bizzarra maestria. É tutto così pop eppure così difficile da digerire, sempre. Poi scende in passerella una giovane modella black, indossando un bomber dalle spalle esageratamente volumizzate e logate che ci trasporta immediatamente sulla pista di un club, nel cuore della cultura afroamericana degli anni non-importa-sapere-quando. Lei è un fulmine che si ritaglia il suo spazio nell’universo Gucci, più bizzarra della bizzaria delle uscite che la precedono. Il Rinascimento moderno è in sostanza la rinascita dell’opportunità di essere, veramente, tutto quel che si vuole. Non è libertà che annichilisce, è joie-de-vivre. Certo questo può avere un prezzo:
[Urtica ferox, chiamata anche ongaonga, è un’ortica endemica della Nuova Zelanda dai fusti legnosi e spine pungenti: toccate, causano un dolore che può durare più giorni e che può creare problemi neurologici, convulsioni e difficoltà respiratorie.]
L’invito alla sfilata arriva dentro ad una scatola che porta il nome di questa pianta. Forse Michele voleva ricordare agli spettatori che “Questo brand gigantesco [Gucci] ti può distruggere per quanto possa essere ripetitivo e faticoso.”
In ultima istanza chi vuole davvero che le collezioni Cruise e ogni altra pre-collezione siano di successo deve concepirle come proposte che giocano la carta dell’istanza creativa. Nel mondo multiverso della velocità e bulimia digitale per immagini e novità, chi non riesce a raccontarsi con autorevolezza lontano o dentro casa, non troverà nemmeno sul mercato un proprio spazio per i suoi prodotti.
Pushed by Martino Carrera